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Rapisardi Mario



Rapisardi Mario - Poeta (Catania 1844-1912).
Quando a ventiquattr'anni, nel 68 pubblicò la sua prima opera,
La Palingenesi (poema in versi sciolti, che è un canto a Roma e vagheggia una riforma religiosa pacificatrice del mondo),
lo chiamarono <<il vate>>; e la denominazione gli rimase.
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Mario Rapisardi.

Già in quegli anni, e più ancora in quelli che seguirono, lo influenzavanole correnti filosofiche della seconda metà dell'Ottocento confluite sotto la generica denominazione di positivismo, coniata dal filosofo che ne fu il teorico e il banditore, il francese Augusto Comte (1798-1857). Gracile, ispirato, romantico, ombroso, geniale e incompreso, ebbe vita intima tormentata.

Si sposò il 12 febbraio 1872 (l'anno stesso in cui avrebbe pubblicato le Ricordanze, liriche tosto definite <<parnassiane>>), a Messina, con una ragazza toscana, Giselda Fojanesi, una bruna di tipo siciliano, che suscitò un pandemonio nell'ambiente in cui si svolgeva la vita di Mario: gelosie in famiglia, vociferazioni pettegole all'esterno e, finalmente, il tradimento.

Gisella abbandonò il marito per andare a vivere con Giovanni Verga, che era tutto il contrario dell'amico: solido, naturale, <<moderno>>, quanto l'altro era malato, lanquido, classicheggiante. (la <<riabilitazione>> di Rapisardi tradito, consistette in un
altro scandalo, del quale, anzichè vittima, stavolta egli fu attore:
la sua tempestosa infatuazione per la contessa Lara,cioè la poetessa
Evelina Cattermole Mancini
; infine entrò nella sua vita la terza donna, Amelia Poniatowski Sobernich, una nobile polacca che si unì a lui per la vita, amabile e consolatrice).

Finì un'amicizia, Rapisardi alimentò la ribellione e misantropia, si erse contro il mondo, offrendo il petto agli altrui strali e lanciandone, contro tutti, egli stesso.

Famosa fu la sua polemica con Carducci, nata da due terzine dell'XI canto del
Lucifero
(1877): <<E chi in aspetto di plebeo tribuno - Giambi saetta
avvelenati e cupi, - e fuor di sè non trova onesto alcuno - Idrofobo cantor, vate da lupi,
- che di fiele briaco e di lièo - Tien che al mio lato il miglior posto occupi>>.

Carducci se ne offese e chiese riparazioni; ma l'autore non tornò indietro, assicurando che quei versi non alludevano a lui. Chiamò l'Aleardi <<svenevol cicisbeo>>, Angelo De Gubernatis <<gangetico Assalonne>>; ma anche quì ritrattazioni:
<<Non volevo offendere>>.

Tutti si ribellarono ai gratuiti insulti, e allora Rapisardi rincarò la dose, affermando che se quelli si erano voluti riconoscere in quei versi, segno che il ritratto, per quanto involontario, era perfetto e somigliantissimo.
Carducci (diventato <<testa irsuta, ampie spalle, ibrida e tozza - persona, in canin ceffo occhio porcino, - bocca che sente di fiele e di vino>>)ricambiò con adeguate espressioni (<< arcade cattivo soggetto di Catania >>,
<< un grande ipocrita e un grande egoista >>, << il vil catanese >>).

Contraddittorio e polemico, il << vate >> fu amico e nemico di altri scrittori,
s'abbracciò e litigò con loro: Capuana, per esempio, il giornalista Luigi Lodi
(che lo sfidò a duello), i redattori del Capitan Fracassa, Giuseppe Chiarini, lo
storico Corrado Ricci, Lorenzo Stecchetti << Mario Rapisardi seguitò tutta
la vita a polemizzare e poco dopo la partenza della moglie scrisse alla Contessa Lara
lettere di fuoco per ricordarle la promessa fatta in un giorno di tenerezza e oblio, di
venire cioè a Catania a vivere con lui >>.

La bella scrittrice non lo ascoltò, e lui: << O dignitosa coscienza e netta! Se mi avessi scritto " Imbastisco il mio millesimo amore e sono a' comandi del tali dei tali ", ti disprezzerei meno. Addio >> (24 marzo 1885). Fine dell'amore.

Frattanto il << vate >>, che s'era andato imbevendo del sorgente socialismo, pubblicò la Giustizia (1883), che ha appunto uno sfondo di democrazia umanitaria, le Poesie religiose (1887), L'Empedocle (1892) e, canto del cigno, L'Atlandite (1894), elaborata allegoria politico-satirica.
L'opera omnia di Rapisardi fu pubblicata nei primi del '900 dall'editore catanese Giannotta, in sei volumi di 500 pagine ciascuno. Contiene anche traduzioni di Orazio e Catullo e il Prometeo liberato dello Shelley. Delle sue opere, qualche cenno.

La Palingenesi (1868) è un poema in dieci canti, nei quali al verso sciolto predominante
si alternano l'ottava e altri metri lirici. Esordio: << Sia principio da te, luce inconsumata / Di verità: coeva a Dio tu splendi / Per la notte dei tempi...>>.
L'autore vi indaga quanto l'eterna Verità abbia illuminato, nei millenni, la mente dell'uomo. Dapprima essa si rivelò al popolo d'Istraele, poi ai romani dell'Impero, poi all'umanità medioevale dei tempi delle Crociate; appaiono, successivamente protagonisti, la Chiesa che, fattasi alleata della tirannide, intorbitava << del ver l'onda serena >>;
Lutero (canto VI), Galileo, Satana (cantoVII), Napoleone fatale reggitore dei destini d'Europa, la riscossa d'Italia.

Il poeta, rapito nella sua visione, contempla estasiato il trionfo di giustizia e libertà, i progressi della scienza, la pace rasserenatrice, il crollo degli antichi idoli, la fuga dei sacerdoti mercenari, una religione riformata codificata in un vengelo d'amore.
Il verso è sonante e scorrevole , ma il << racconto >> è fatto di luoghi comuni, di retorica e astrazioni, più che di fatti e immagini. Gli ultimi due versi: << ...E le amene fugando ombre dintorno / Altri cieli, altri mondi, apre allor viso >>.

Il Lucifero (1877) è ispirato dalla crisi di ateismo che colse il poeta: quindici canti,
quasi 10.000 versi, endecasillabi sciolti e altri metri, dedicato ad Andrea Maffei.
Il piglio è montiano. Esordio: << Dio tacea da gran tempo. Ai consueti / Balli
moveano in ciel gli astri, e con dura / Infallibile norma albe ed occasi /
Il monotono Sol dava a la terra
>>.
Lucifero è l'Eroe, che, non ascoltando gli ammonimenti di Prometeo, sale sulla Terra per incarnarsi e dare << all'uom salute e morte a Dio >>. Ama Ebe, passa da un paese all'altro, da un'epoca all'altra; riappaiono Lutero e Roma libera.
Il poema, non meno retorico della Palingenesi, e pur ispirato da sincerità emotiva, fu definito << caratteristico esempio di intemperanza letteraria >>.

Il Giobbe (1884), altro lungo poema, canta il duro cammino dell'umanità infelice (simboleggiata dall'eroe biblico); la sua sgomenta infelicità non scompare neppure mentre il suo pensiero marcia trionfalomente attraverso le sue tre fasi che col Comte, possono essere definite teologica, metafisica e positiva.

In questo poema - analogo per bizzarria dei dettagli, gratuità psicologica dei personaggi e costruzione farraginosa ai due precedenti - naturalismo e pessimismo si amalgamarono in una visione blasfema: negare, sembra essere la tesi conclusiva, equivale a possedere la ragione.
Nelle Poesie religiose (1887) la fede positivistica si fa religione. Al contrario che negli abborracciati poemi precedenti, in questi 37 brevi componimenti la forma è soffermatamente curata.

Enc. di Ct Tringale Editore 1987